Operette immorali surreali. Aforismi, sentenze e oracoli

STRALUNATI

Operette immorali surreali. Aforismi, sentenze e oracoli

TORNA LEARCO PIGNAGNOLI, ALIAS BENATI – Appunto numero 1: “Conoscevo uno che sbagliava sempre le parole. Una volta voleva dire polipo, ha detto flauto”

DI LUCA SEBASTIANI
3 SETTEMBRE 2022

Finalmente una buona notizia, un motivo per rallegrarsi almeno un poco in un periodo così nero che se ce lo avessero raccontato non ci avremmo creduto, tra pandemie, guerre, crisi ambientale e campagna elettorale.Stiamo parlando della ripubblicazione delle Opere complete di Learco Pignagnoli (Quodlibet), un piccolo classico che fin qui aveva circolato quasi in forma clandestina, al più esposto in bella mostra nella libreria dei cultori che se ne erano gelosamente accaparrati una copia nella prima e ormai introvabile edizione (Aliberti) di una quindicina di anni fa.

Oggi fortunatamente Daniele Benati lo rimette in circolazione e ce ne presenta un’edizione abbondantemente ampliata con l’aggiunta di altre Opere complete che aumentano di 180 unità il numero di questi brevi o brevissimi capolavori della letteratura comica.

Si tratta di aneddoti surreali, aforismi ironici, riflessioni satiriche; frammenti che vanno da una riga appena ad una manciata di pagine, disposti ognuno sotto un numero progressivo che a leggerli di seguito rivelano una struttura iterativa, con temi, motivi e personaggi che ritornano ad intervalli calcolatissimi. Si va dall’Opera numero 1 (“Conoscevo uno che sbagliava sempre le parole. Una volta voleva dire polipo, ha detto flauto”) alla 425 (“Comunque c’è troppo casino a questo mondo, non si può andare avanti così. Voi cosa dite, siete d’accordo con me o ci ho ragione io?”).

In mezzo le situazioni più disparate e stralunate che, trattate con una lingua calcolatissima che mima il parlato vagamente emiliano, sviluppano “una visione disgustata del mondo – come scrive Ermanno Cavazzoni nella presentazione – e una comicità caustica e politicamente scorretta sulla vita, sui luoghi comuni, su certi opinionisti televisivi in vista, sulle patrie lettere e così via”. Provocando incontrollabili eccessi di riso liberatorio.

Ma queste brevi opere vengono da una tradizione lontanissima e ricordano l’apoftegma, parola difficile e ormai rara, che potrebbe essere tradotta con sentenza, detto breve e memorabile, portatore di qualche verità espressa però con grande arguzia. Inizialmente presso i greci dell’epoca arcaica venivano tramandati oralmente, come quei fatti locali indimenticabili che si raccontano nei bar di provincia, ma poi i greci hanno cominciato a raccoglierli in forma scritta e sono venuti fuori le sentenze dei sette savi – addirittura l’origine della filosofia – oppure, più tardi, gli apoftegmi di Isocrate o i Moralia di Plutarco. Poi però l’antica sentenziosità oracolare è via via decaduta, come tutto, e la serietà di questi brevi detti si è trasformata, soprattutto in Italia, in aneddoto comico, in motto di spirito – come si può vedere nella novellistica da Boccaccio in avanti – o nella facezia spassosa, come nei Detti e facezie del Piovano Arlotto. E siamo già nel serissimo periodo detto dell’Umanesimo, in cui anche gli autorevolissimi Leon Battista Alberti e Leonardo da Vinci si dilettavano con favole e apologhi ormai liberati di qualsiasi finalità didattica.

Ma il più prossimo progenitore di Learco Pignagnoli ci sembra essere nientemeno che Filippo Ottonieri, stravagante filosofo sotto le cui mentite spoglie Giacomo Leopardi tracciò un ritratto ironico di sé stesso nei Detti memorabili di Filippo Ottonieri, nelle Operette Morali. Il suddetto Ottonieri fu infatti odiato dai suoi concittadini “perché parve prendere poco piacere di molte cose che sogliono essere amate e cercate assai dalla maggior parte degli uomini”. Ed ecco che i fulminei aforismi, i rutilanti aneddoti di Learco – sotto le cui mentite spoglie si cela il Benati come il Leopardi sotto quelle di Filippo – sono una gnomica che fa saltare tutti i luoghi consensuali della nostra civiltà contemporanea, che attraverso la risata ribaltano la vana egolatria della società attuale. Sono, come le Galline pensierose di un altro emiliano, Luigi Malerba, degli apologhi zen che qualora fossimo disposti al gioco ci condurrebbero in un punto di vertigine metafisica: Opera n. 63, “È finito male e sai perché? Perché credeva di essere sé stesso”. Se fossimo tutti un poco più pignagnolesi, o pignagnoliani – non saprei come dire – insomma se smettessimo di voler primeggiare, la civiltà sarebbe sicuramente un posto più vivibile.

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