*L’economia di Bergoglio* di Vincenzo D’Anna*
Correva l’anno 1891 quando Papa Leone XIII promulgò una delle encicliche più importanti della Chiesa, certamente tra le più note. Un atto che orientò i cattolici su come vivere i temi del lavoro e della ricchezza ispirandoli ed indirizzandoli nel contesto sociale e politico del mondo. Fu da quel documento che presero vita il sistema delle banche cooperative ed un primo abbozzo di quello che poi sarebbe divenuto il cosiddetto “welfare state”. Fu quella direttiva ad impegnare i credenti spingendoli ad edificare tutte quelle opere con le quali aiutare e redimere larghi strati della popolazione dallo stato di bisogno e dallo sfruttamento. Il tutto senza cadere nella tentazione del marxismo rivoluzionario (e dell’odio di classe) ed, al tempo stesso, concependo che il lavoro era per l’uomo e non per il suo contrario. Erano quelli gli anni dello scontro tra liberali e socialisti, gli uni schierati a difesa della proprietà, del latifondo e della ricchezza accumulata, gli altri a confutare l’essenza morale della proprietà e della ricchezza frutto, perlopiù, dello sfruttamento dei poveri, ovvero del plus valore che si ricavava del plus lavoro non disciplinato né tutelato. Un conflitto violentissimo, sul piano sociale e politico, che diede luogo a violenti espropri proletari (da parte socialista), scatenando la forte reazione delle istituzione con pesanti e sanguinose repressioni tra cui la più tristemente famose fu quella che andò sotto il nome di moti di Milano nel maggio del 1898, con la protesta popolare contro le disumane condizioni di lavoro ed il rincaro del pane. A reprimerla, a suon di cannonate (con oltre ottanta morti), fu chiamato il generale e ministro Bava Beccaris. Insomma Leone XIII aveva letto il segno dei tempi pressato com’era dal voler evitare disorientamento tra i Cattolici appartenenti ai due schieramenti sociali. Fu così che si indicò il rispetto della persona umana e dei lavoratori, la sacralità del salario ed al tempo stesso della proprietà che fosse frutto del lavoro stesso. La proprietà altri non era che “la giusta mercede” derivante dallo stipendio, cambiata di segno. Ovvero il risparmio tramutato in proprietà. Ne seguiva l’esigenza che i Cattolici si organizzassero con strutture ed opere sociali per assistere e tutelare i meno abbienti promuovendo leggi sindacali di stampo non marxista per difendere i lavoratori. Fu da questa posizione mediana che contemperava la dignità ed i diritti dei lavoratori con il diritto ad essere proprietari, che si orientò prima nel sociale poi nel politico (con “l’appello ai liberi ed ai forti” di don Luigi Sturzo), la lunga storia del monumento cattolico italiano ed europeo. Una Chiesa, quella di Leone XIII, che respingeva i dogmi del socialismo marxista e massimalista ateo, ed al tempo stesso la produzione di ricchezza scaturita dallo sfruttamento dei ceti più bisognosi. Se in Italia il comunismo non ha mai fatto breccia nella maggioranza degli italiani lo si deve proprio a questi principi etici ed economici al tempo stesso. I Papi passano ma determinati valori restano come fondativi per l’azione sociale e politica dei cristiani, quelli che oggi si chiamano moderati o navigano sparpagliati sotto vari simboli dopo la fine della Dc. E tuttavia pare che della dottrina sociale della Chiesa e del suo ecumenismo oggi ci si voglia disfare, intendendo quei principii emendabili oppure diversamente interpretabili da chi oggi siede sul soglio di Pietro. Se è vero, infatti, sin dal Sillabo di Papa Pio IX, poco prima della breccia di Porta Pia e dell’annessione di Roma all’Italia, che il Pontefice è infallibile, per dogma, in materia di fede, non bisogna considerarlo tale in altra materia. Ed è quello che da tempo ormai molti Cattolici pensano. In particolare da quando Bergoglio ha spostato verso la cura dei poveri l’asse d’interesse assoluto della Chiesa, indirizzandosi verso quella dottrina della liberazione “comunitaria” e socialista che si porta appresso dall’America Latina. Un’idea totalizzante che sembra ormai escludere, se non guardare malevolmente, chi nell’ambito della stessa Chiesa, non appartiene alla categoria dei diseredati e soprattutto crede nel liberalismo e nella libera economia di mercato. La conferma viene dalla riunione di Francesco ad Assisi con i giovani economisti cattolici. A loro il Papa ha indicato come modello da realizzare (ovviamente per i poveri) un’economia ispirata a San Francesco. Ora, al di là degli alati propositi di coniugare tutela ambientale con sviluppo e lavoro (senza scarto di alcun tipo e senza impatti di alcun genere), pace con prosperità, non è dato sapere a quale modello effettivamente compatibile e realizzabile egli intenda riferirsi quando tira in ballo il poverello di Assisi. In un mondo già confuso e preoccupato, disorientato dai modelli socio economici operanti, trovare un Pontefice che sogni un mondo candido e pauperista ci può anche stare, ma che parli per sentito dire di cose mai viste non danneggia solo i credenti ma il mondo intero.
*già parlamentare