La riflessione – Le vite spezzate sul lavoro. Quando la morte è sistema e silenzio

di Lina Angela Barbieri 

Roma, 5 agosto 2025 –  C’è qualcosa di profondamente ingiusto, eppure tristemente regolare, nell’assuefazione collettiva alle morti sul lavoro. Ogni giorno in Italia si consuma una tragedia taciuta, inascoltata, ripetuta: uomini e donne che escono di casa per lavorare e non fanno più ritorno. La cronaca li liquida in poche righe: “incidente sul lavoro”, “morto sul colpo”, “cause da accertare”. Ma dietro quelle formule c’è un Paese che, lentamente, ha disimparato a indignarsi.

L’articolo pubblicato da Domani il 5 agosto 2025, dal titolo “Più incidenti e meno ispezioni. I ‘mandanti’ dei morti sul lavoro”, va dritto al cuore del problema: non si muore per caso, ma perché le condizioni per morire lavorando ci sono tutte — e sono lasciate lì, intatte, da anni. L’Italia è diventata un Paese in cui la vita del lavoratore vale meno della marginalità di un’impresa, meno dei vincoli di bilancio, meno della pressione di chi considera la sicurezza un intralcio.

I numeri parlano chiaro: aumentano gli infortuni, aumentano le morti, diminuiscono i controlli. Si smantellano progressivamente le strutture di ispezione, si alleggeriscono i vincoli normativi, si tagliano gli organici degli enti preposti. Il risultato è un’assenza strutturale dello Stato nei luoghi dove, invece, dovrebbe essere più presente: i cantieri, le fabbriche, i capannoni industriali, i magazzini, i campi agricoli. Lì dove il lavoro si sporca di sudore e fatica.

L’articolo pubblicato da Domani non racconta una novità. Racconta qualcosa che molti sanno, ma che pochi hanno il coraggio di guardare davvero in faccia. Le morti sul lavoro sono diventate parte del paesaggio. Rumore di fondo. E proprio per questo, ancora più atroci.

Una falce sospesa sopra un’impalcatura, circondata da caschi gialli che fluttuano tra le nuvole: è l’immagine simbolo che accompagna l’inchiesta. Poetica e brutale insieme, dice ciò che le parole spesso evitano. “Come sempre sul lavoro le vite”, recita una scritta. Come se fosse sempre andata così. Come se fosse inevitabile.

Ma non lo è.

Leggendo quell’articolo, si associa il pensiero al saggio “Dai braccianti ai rider” di Raffaella Alois. Una storia che è insieme un atto d’amore e una denuncia sociale, dove si incarna un’Italia marginale, quella che non ha voce. Eppure, proprio per questo, la sua narrazione arriva fortissima al lettore. Alois riesce a fare ciò che i dati non possono: dare un volto, un nome, un dolore alle statistiche, ricordarci che ogni vittima è una storia, una famiglia, un progetto spezzato.

Nel saggio la morte non arriva per fatalità, ma per logiche di sfruttamento, per inerzia istituzionale, per colpe condivise e occultate. La narrativa si fa politica, e al tempo stesso umanissima. Quello che Domani documenta con precisione, Alois lo traduce in carne e respiro, in emozione e rabbia. E proprio qui si compie un passaggio importante: la denuncia sociale non è più solo un fatto tecnico o giuridico, ma si fa anche urgenza etica e culturale.

E dunque le morti non sono tragiche fatalità ma la conseguenza di una lunga, ininterrotta catena di disuguaglianze, sfruttamenti, abbandoni. Un filo nero che unisce i braccianti del Sud alle catene di montaggio del dopoguerra, passando per i facchini della logistica e arrivando fino agli algoritmi delle piattaforme digitali. Cambiano i tempi, cambiano le forme, ma il volto resta lo stesso: quello del lavoro precario, sottopagato, invisibile.

L’inchiesta di Domani denuncia dati spietati: il crollo delle ispezioni, l’aumento degli infortuni, l’esplosione del lavoro grigio e nero. Una realtà in cui intere aziende non ricevono controlli da anni, in cui i subappalti si moltiplicano senza regole, e a morire sono quasi sempre i più fragili: immigrati, giovanissimi, lavoratori in nero. Gli ultimi.

È la stessa dinamica che Alois analizza nel suo saggio con rigore documentario e partecipazione umana. La scrittrice traccia una genealogia della fragilità lavorativa italiana che non risparmia nessuno: braccianti senza diritti, operai dimenticati, rider tracciati da app e ignorati dalla legge. In ogni epoca, lo sfruttamento assume nuove forme, ma non cambia sostanza: si lavora senza tutele, si muore senza risarcimenti, si vive senza garanzie.

Chi piange davvero queste vite?

Spesso, nessuno. Soprattutto quando il lavoro è in nero. Perché nel nero non ci sono contratti, né INAIL, né assicurazioni. Non c’è Stato. E chi muore scompare anche giuridicamente. Nessuna indagine, nessun processo, nessun risarcimento. Solo madri, figli, mogli e fratelli che restano con un dolore senza luogo, senza nome, senza voce. Un lutto sospeso, come quei caschi gialli nel cielo dell’illustrazione: corpi senza peso per chi comanda, ma macigni per chi resta.

Ecco perché il legame tra l’inchiesta giornalistica e il libro di Alois è così potente. Entrambi non si fermano alla superficie del fatto. Scavano nella struttura profonda che lo genera. Dicono una verità scomoda: non si muore per caso. Si muore perché qualcuno ha deciso di non vedere. Di non controllare. Di non proteggere. Di non pagare.

I braccianti del passato non sono i rider di oggi, ma condividono lo stesso destino: un lavoro spogliato di diritti, dignità, sicurezza. Cambiano i mestieri, restano i mandanti: chi taglia i fondi alle ispezioni, chi assume in nero, chi subappalta senza garanzie, chi finge di non sapere. Tutti responsabili. Nessuno escluso.

E allora la domanda vera è questa: cosa dice di un Paese il fatto che si possa morire per consegnare un pacco, raccogliere pomodori o saldare un ponteggio, senza che nessuno ne risponda?

Oggi siamo talmente assuefatti alla logica della prestazione, della velocità, della concorrenza, che abbiamo smesso di chiederci cosa sia davvero il lavoro. E se valga ancora la pena morire per esso.

Il giornalismo denuncia con i numeri. La letteratura restituisce anima a quei numeri. Ed è nell’incontro tra questi due sguardi che si apre una possibilità: guardare finalmente in faccia la verità.

Un Paese che accetta la morte sul lavoro come costo fisiologico, è un Paese che ha perso il senso della giustizia. Ma può ancora ritrovarlo. A condizione di scegliere da che parte stare.

 

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