DI LUCA TESCAROLI
2 SETTEMBRE 2022
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Era il 7 giugno 1996 quando, al termine di un’udienza nell’aula bunker di Caltanissetta del processo di I grado nei confronti dei responsabili della strage di Capaci, il maresciallo Cimino mi informò che l’imputato Calogero Ganci voleva parlarmi. Lo raggiunsi nel carcere nisseno e iniziò a collaborare con la giustizia: ammise di aver partecipato a innumerevoli stragi e omicidi, che avevano segnato la storia di Cosa Nostra dagli inizi degli anni 80, fra i quali, i plurimi omicidi, eseguiti il 3 settembre 1982 a Palermo, del generale piemontese, divenuto prefetto di Palermo, Carlo Alberto dalla Chiesa, la giovane moglie, sposata in seconde nozze, Emanuela Setti Carraro, e l’agente Domenico Russo. Spiegò di aver guidato l’auto dalla quale Antonino Madonia aveva iniziato a sparare con il kalashnikov, crivellando di colpi Setti Carraro e la figura quasi leggendaria del generale, che aveva saputo combattere il terrorismo di sinistra, che apertamente aveva osato sfidare Cosa Nostra, venendo in Sicilia.
Negli interrogatori successivi, Ganci indicò i 13 componenti del commando operativo e le modalità organizzative ed esecutive dell’agguato. Il 12 luglio successivo, lo seguì nella scelta collaborativa il cugino Francesco Paolo Anzelmo. Senza di loro non si sarebbe mai giunti a individuare e a condannare i responsabili dei tre omicidi. Frattanto, il 10 giugno 1996, la Corte di cassazione poneva la parola fine al maxiprocesso, iniziato oltre un decennio prima, riconoscendo la responsabilità, quali mandanti, di Salvatore Riina e di altri sei componenti della commissione provinciale palermitana. La condanna di Madonia e di altro membro del commando (Vincenzo Galatolo) è divenuta definitiva, a seguito della sentenza del 22 giugno 2004 della Corte di cassazione. Il lungo percorso per giungere all’accertamento della verità è stato caratterizzato dal depistaggio del pregiudicato Giuseppe Spinoni (le cui spese legali venivano sostenute dai servizi segreti), che indirizzò le indagini verso criminali del tutto estranei e che venne, poi, condannato per calunnia.
Dalla Chiesa era convinto che dovesse essere lo Stato a dettare la sua legge nel territorio-dominio incontrastato della mafia e, perciò, si prodigò per attuare il presidio militare diffuso: aveva investigato sul delitto De Mauro, i suoi rapporti avevano alimentato il lavoro della commissione antimafia sui politici siciliani ed era stato inviato nel capoluogo siciliano a seguito dell’assassinio del segretario regionale del Pci Pio La Torre nel 1982, quando la mafia corleonese era in ascesa sanguinaria e stava attuando il suo disegno egemonico sull’intera isola. Sebbene siano trascorsi 40 anni da quell’eccidio, zone d’ombra offuscano la verità completa sia con riferimento alla coesistenza di specifici interessi all’interno delle istituzioni sia in ordine alle modalità con le quali il prefetto è stato mandato in Sicilia a fronteggiare il fenomeno mafioso senza i mezzi necessari. La determinazione e i propositi di agire senza sconti per nessuno erano stati avvertiti in tutta la loro pericolosità non solo da Cosa Nostra, ma anche da quella classe politica legata a filo doppio con l’organizzazione, che non aveva esitato a fare terra bruciata attorno a quell’uomo venuto dal Nord. A quel tempo la compagine governativa era guidata da Giovanni Spadolini e il ministro degli Interni era Virginio Rognoni. Presidente della Regione siciliana era l’andreottiano Mario d’Acquisto. Gran parte del potere politico reale era nell’isola custodito da Salvo Lima, Vito Ciancimino e Aristide Gunnella.
In quegli anni, politici di spicco e blasonati intellettuali sostenevano che era ormai finita l’integrazione tra politica e mafia. La sua morte annunciata fece capire, per la prima volta, che la mafia era una questione nazionale e non un fatto folcloristico, perché penetrata profondamente nella realtà economica e politica. Dieci giorni dopo, il 13 settembre 1982, il Parlamento, infatti, approvò il progetto di legge Rognoni-La Torre, che introduceva il reato di associazione mafiosa, le misure di prevenzione patrimoniali del sequestro e della confisca, e una nuova regolamentazione volta a contrastare l’infiltrazione mafiosa negli appalti. Venne istituita una speciale commissione in seno al Csm. Si cominciò a comprendere quanto era compenetrata Cosa Nostra nel sistema del potere. Dalla Chiesa aveva capito che il pentitismo era possibile, che erano necessarie un’azione di coordinamento nazionale e la neutralizzazione degli interessi mafiosi nella Pubblica amministrazione.
Se è vero che quel generale è divenuto un eroe nazionale, mai una vittima di mafia da morta è stata fatta oggetto di così numerose aggressioni, anche alimentate dalla sua accertata appartenenza alla P2, un’incauta adesione che ha attirato un valido uomo delle istituzioni.
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