1956, in agro di Calvi Risorta, Sparanise  e Teano –  Il “guappo della zona” tentò di uccidere il genero e altre persone e perfino  i carabinieri  che dovevano arrestarlo – Il movente era da ricercarsi nella separazione della figlia dal giovane marito di Ferdinando Terlizzi    

 

1956, in agro di Calvi Risorta, Sparanise  e Teano –  Il “guappo della zona” tentò di uccidere il genero e altre persone e perfino  i carabinieri  che dovevano arrestarlo – Il movente era da ricercarsi nella separazione della figlia dal giovane marito di Ferdinando Terlizzi  

 

Il 14 giugno del 1956 Gennaro Palumbo denunciava ai carabinieri di Sparanise che nel corso della notte precedente ignoti avevano dato fuoco a due pagliai e tagliato e scortecciato diverse piante in un suo fondo sito in località “Colonnella” del Comune di Francolise cagionandogli un danno di 40.000 lire. Il denunciante precisava che non aveva mai litigato con nessuno e tantomeno con i suoi vicini di fondo  e accennava invece a delle minacce fatte alla sua famiglia da Nicola Leone,  noto pregiudicato suocero di suo figlio Giuseppe. Raccontava riguardo che suo figlio, contratto matrimonio con la figlia del  Leone, Maria aveva vissuto per un certo tempo in Calvi Risorta insieme ai suoceri poi, essendo stato tratto in arresto il Leone, per evitare di essere coinvolto in loschi imprese dello stesso, si era  rifugiato a Sparanise, ove però la moglie non aveva voluto seguirlo. In seguito il Leone, rimesso in libertà, avevo tentato diverse volte di convincere il genero a ritornare a Calvi Risorta e non essendovi riuscito – circa un mese prima della loro denuncia – aveva minacciato in Sparanise le figlie di esso denunziante Anna e Giuseppina, pronunciando verso di loro la seguente frase: “Vi debbo appicciare vivi vivi”… . Le circostanze esposte da Gennaro Palumbo venivano confermate in sede di indagini Anna Palumbo e da Giuseppe Palumbo il quale aggiungeva che proprio il giorno precedente il danneggiamento il Leone gli aveva mandato a dire a mezzo di tale  Amedeo Pirone che prima doveva fare un affare e poi lo avrebbe ucciso a colpo di pistola insieme alla madre e alla sorella se non si fosse deciso a tornare a calvi. Il Pirone confermava  a sua volta tale episodio. Infine il Leone ammetteva di avere parlato della sua questione familiare con il Pirone il giorno 13 giugno e con Giuseppe Palumbo circa un mese prima ma negava di avere pronunciato in tale occasione parole di minacce e affermava altresì di essere del tutto estraneo al danneggiamento e anzi di non conoscere neppure il fondo di Gennaro Palumbo non essendosi mai recato nella  zona. I carabinieri di Sparanise riferivano quanto innanzi con rapporto del 4 luglio del 56 precisando di aver constatato che effettivamente si erano verificati l’incendio e il taglio di piante denunciate che non rispondeva al vero l’assunto del Leone di non conoscere il fondo della parte lesa in quanto il predetto qualche volta era stato da loro visto nei pressi di detto terreno  proprio quando vi lavoravano Gennaro Palumbo e i suoi familiari.  Iniziava pertanto procedimento penale a carico del Leone per  danneggiamento, incendio e minacce gravi continuate. Successivamente con rapporto della Tenenza dei carabinieri di Teano in data 11 settembre 56 il Leone veniva denunciato quale responsabile di tentati omicidi in persona del genero Giuseppe Palumbo e di Nicola Manfreda e Carmela Mastrostefano.  Si esponeva in questo secondo rapporto che la sera del 3 settembre in località “Aia” della frazione di Petrulo  del Comune di Calvi Risorta il Leone aveva aggredito Giuseppe Palumbo e Nicola Manfredi producendo al primo ferite da punta e taglio e  due ferite da colpi di pistola. Inoltre la mattina del 4 settembre in località “Casaquinta” del Comune di Teano aveva fatto segno a colpi di pistola Antonio Imparato e la moglie dello stesso Carmela Mastropietro  cagionando agli stessi varie ferite. Dalle dichiarazioni rese dai feriti e da Carmela D’Angelo,  moglie del Manfreda, era emerso che il Leone verso le ore 18:00 del 3 settembre si recò alla fabbrica di fuochi di artificiale del Manfreda sita  nei pressi della “Cava Fabbrena”  in agro di Calvi Risorta per discutere con il Palumbo, che ivi lavorava, in merito alla nota questione della sua separazione dalla moglie ed appreso dal Manfredi, che era presso la fabbrica,  il giovane non aveva intenzione di ristabilirsi in Calvi Risorta, rispose  “che giammai avrebbe permesso alla figlia di trasferirsi a Sparanise ed avrebbe anzi ucciso il genero”. II  Manfreda a questo punto replicò che non doveva permettersi di toccare il Palumbo quando questi era con lui e indi il Leone andò via. Più tardi verso le 20:30 mentre il Manfreda  e il Palumbo sistemavano in contrada “Aia” di Petrulo i bossoli per le granate che dovevano essere ivi esplose  per una festa religiosa,  sopraggiunge nuovamente alle loro spalle il Leone.

Avvocato Antonio Simoncelli

 Colpi di pistola contro lo genero, il suo datore di lavoro, contro chi l’aveva denunciato e contro i carabinieri che dovevano arrestarlo – 

 Costui disse: “oh che state a fare?”,  e stando alla distanza di qualche metro sparò tre o quattro colpi di pistola attingendo prima il Manfreda con un colpo e poi due volte il Palumbo; indi ferì ancora, con un coltello a serramanico (avente il manico spezzato di recente) successivamente sul posto, il Palumbo che però, nonostante le ferite riportate, riuscì  infine a sottrarsi all’aggressione fuggendo verso il centro del paese ove frattanto si era già portato il Manfreda. La mattina seguente verso le ore 7:00 il Leone si presentò poi nel fondo di proprietà Taglialatela in località “Casaquinta”  di Teano ove il colono Antonio Imparato e sua moglie Carmela Mastrostefano raccoglievano i pomodori ed improvvisamente esplose verso i medesimi, alla distanza di circa 3 m, quattro colpi di pistola colpendo 3 volte l’Imparato e una volta la donna; i motivi di detto ferimento andavano ricercati nel fatto che il Leone nell’ottobre del 1954 era stato sorpreso a rubare delle mele in quel medesimo fondo dall’Imparato e indi denunciato. Intanto con rapporto del 5 settembre 1956 i carabinieri di Pignataro Maggiore  denunziavano a loro volta tale Luigi Ragosta, in stato di arresto,  per avere  aiutato il Leone a sottrarsi alle ricerche e alla cattura. Essi riferivano che nel corso di un’azione di rastrellamento eseguita in località “Tredici Rupe”,  nell’agro di Sparanise onde eseguire la cattura del Leone verso le ore 11:45 del detto giorno 5 settembre avevano notato presso una casa colonica,   composta di una stanza e due stalle, un uomo e due donne che vendemmiavano. Vedendoli avvicinare l’uomo, successivamente identificato per il proprietario della casa Luigi Ragosta, si era diretto con passo svelto verso il fabbricato evidentemente per avvertire del  pericolo il Leone che era suo ospite.  Infatti il Leone, che in quel momento consumava nella stanza una colazione (i cui testi furono poi rinvenuti  unitamente a un coltello a serramanico) , si era fatto scudo del Ragosta ed impegnate due pistole aveva esploso tre colpi contro i carabinieri, incurante dell’intimazione di arrendersi, infine si era dato alla fuga. Il Ragosta  aveva negato di aver dato asilo a Leone e perfino di conoscerlo. Ma secondo i verbalizzanti il predetto ben conosceva il Leone ed anche la sua qualità di ricercato giacché il Leone era conosciutissimo nella zona –  che frequentava per raccogliere legna – ed era già giunta  colà notizie delle sue recenti gesta criminose, che anzi  avevano avuto vasta risonanza ed avevano  impressionato molto la popolazione tutta. Nel corso della formale istruzione le parti lese ed i testimoni già escussi dei carabinieri si riportavano alle loro prime dichiarazioni mentre i verbalizzanti confermavano le risultanze dei rapporti. La Mastrostefano precisava però che era stata colpita mentre abbracciava il marito per proteggerlo dall’aggressione la quale ebbe termine quando essi si gettarono a terra.

Anche l’Imparato confermava queste circostanze ed aggiungeva che con il Leone non aveva avuto altre questioni che quella relativa al furto delle mele e che anzi il predetto dopo essere stato condannato per tale reato aveva mostrato di non  serbargli  rancore.  Maria Leone confermava che viveva separata dal marito per essersi rifiutata di seguirlo in Sparanise e chiariva che non aveva voluto trasferirsi in quel comune temendo che i familiari del marito, che ivi abitavano, come già avevano fatto in passato, la maltrattavano.  Venivano sentiti anche Giuseppina Palumbo figlia del Palumbo Gennaro che riferiva sulle minacce fatte dal Leone nonché Iolanda De Luca e Antonio D’Andrea i quali riferivano in marito al ferimento dell’Imparato e della Mastrostefano. Il Leone costituitosi il 17 settembre 1956 interrogato previa ordine e mandati di cattura ammetteva i fatti addebitatigli.  In particolare raccontava che il Giuseppe Palumbo dopo aver sposato la sua figliola appena quattordicenne, era vissuto con la stessa, maltrattando di sovente, dapprima a Sparanise, presso i propri familiari e poi in Calvi ed infine a seguito dell’arresto di esso Leone  era tornato di nuovo a Sparanise abbandonando in Calvi Risorta la moglie che nel frattempo avuto la bambina.  Riferiva ancora che ottenuta la libertà, aveva fatto molteplici tentativi per indurre il giovane a riconciliarsi con la ragazza ma senza riuscire pertanto, giunto all’esasperazione, aveva deciso di uccidere il predetto al fine di fare di acquistare alla figlia lo stato libero.  Prima di attuare tale proposito avrebbero voluto tentare ancora di convincere il Palumbo con le buone così la sera il 3 settembre si era portato da lui per parlargli ma era stato accolto in malo modo e quindi si era  stabilizzato nel  suo animo il disegno omicida. Armatosi di pistola aveva poi raggiunto il Palumbo in località Patrulo  ed aveva tirato quattro colpi di pistola e delle coltellate ferendo, ma   per errore anche il Manfreda. Il Leone  ammetteva inoltre che dopo aver commesso quanto innanzi ha pensato che era giunto il momento di vendicarsi anche con Antonio Imparato che lo aveva accusato di furto di mele, che egli aveva sì asportato ma in piccole quantità, e si era recato nel fondo in località “Casaquindici”, ove aveva sparato contro Imparato quattro colpi di pistola ma aveva colpito per errore anche  la Maestrostefano. Il Ragosta  si riportava a quanto dichiarato ai carabinieri e veniva scarcerato per concessione della libertà provvisoria.

Il processo,  la condanna a 30 anni di reclusione, aveva precedenti gravissimi  – Le sue   gesta criminose, avevano avuto vasta risonanza ed avevano  impressionato molto la popolazione tutta.

 Tratto al giudizio della Corte di assise di Santa Maria Capua Vetere per i gravissimi reati (Presidente, Eduardo Cilento; giudice a latere Guido Tavassi; giudici popolari: Michele Felisio, Giuseppe Castaldo, Giuseppe Izzo, Attilio Barra, Dante Filippello e Antonio Di Maio;  pubblico ministero Gennaro Calabrese),  il pubblico ministero di udienza chiedeva l’assoluzione del Leone dei reati di incendio e danneggiamento per insufficienza di prove e la condanna del medesimo e per il tentato omicidio in persona del genero, esclusa la gravante del motivo futile, ad anni 18 di reclusione; per le lesioni in danno di Manfreda ad anni 1 di reclusione; per il tentato omicidio in persona dell’Imparato con lesioni gravi in danno della Mastrostefano ad anni 21 di reclusione; per la resistenza ad anni 2 di reclusione.  Per le minacce e mesi 9 di reclusione. Chiedeva altresì la condanna del Ragosta alla pena di anni 2 di reclusione. Il difensore del Leone esibiva delle lettere inviate da   Giuseppe Palumbo all’imputato e un certificato  dell’ospedale psichiatrico Santa Maria Maddalena di Aversa relativo al padre dell’imputato; chiedeva che il Leone fosse sottoposto a perizia psichiatrica e che fosse richiesto al carcere di Santa Maria Capua Vetere copia del suo diario clinico e in subordine che fossero degradate le imputazioni di tentato omicidio in lesioni; che fossero escluse le aggravanti della premeditazione, del motivo futile e abbietto concessi il beneficio della seminfermità mentale e, per il reati in danno del Palumbo, le attenuanti generiche, della provocazione e del motivo di particolare valore morale sociale. Il difensore del Ragosta a sua volta concludeva per l’assoluzione del suo difeso “perché il fatto non costituisce reato”. La Corte invece la pensò diversamente e chiarì che: “la difesa del Leone ha sostenuto in sede di discussione che il predetto imputato debba essere sottoposto a perizia psichiatrica al fine di accertare se alla epoca dei fatti per i quali è processo avesse o meno piena capacità di intendere e di volere e anzi ha chiesto in via subordinata che il Leone sia senz’altro considerato soltanto parzialmente imputabile per infermità mentale. Tali richieste sono del tutto infondate. Invero i fatti dei quali Leone è chiamato a rispondere non rivelano il benché minimo indice di anomalia mentale ed anzi dimostrano per la logicità il la razionalità con cui furono ideate ed eseguiti la assoluta integrità delle funzioni psichiche del loro autore. Nè certo dalla vita anteatta del prevenuto e dalla sua condotta processuale è emerso elemento alcuno idoneo a far sorgere dubbi sulla sua sanità mentale. Vero è che la difesa ha esibito a sostegno della sua tesi un certificato dell’ospedale a psichiatrico Santa Maria Maddalena di Aversa in cui si attesta il padre Geremia Leone, venne in vari periodi ricoverato in quello istituto perché è affetto da eccitamento maniacale ciò si rileva da una dichiarazione firmata DA Annibale Puca, direttore dello psichiatrico ed inoltre ha fatto istanza che sia richiesta al carcere di Santa Maria Capua Vetere la cartella clinica del Leone al fine di un preciso controllo delle condizioni psichiche del medesimo durante la detenzione. Ma la richiesta della cartella clinica appare inutile che ove il detenuto avesse rivelato anomalie degne di nota le autorità carcerarie non avrebbero omesso di segnalarle e in quanto al certificato esibito va rilevato che il generico dato anamnestico che da esso si ricava, mancando come si è detto qualsiasi manifestazione di malattia mentale del prevenuto, è insufficiente non soltanto servire di fondamento ad una dichiarazione di infermità  totale o parziale di mente ma anche ad integrare i “gravi e fondati indizi” richiesti perché si possa nel dibattimento disporre di una perizia sullo stato di mente dell’imputato”. Con sentenza del 6 giugno del 1958  entrambi gli imputati vennero condannati….”Pertanto la Corte, tenuto conto dei criteri indicati in particolare delle modalità dei fatti ritiene di infliggere al Leone per il reato di danneggiamento ad anni 1 di reclusione; per le minacce a mesi 6;  per il tentato omicidio premeditato in danno del genero ad anni 18 di reclusione; per le lesioni interne in danno di  Nicola Manfreda mesi 9; per il tentato omicidio aggravato per il motivo abbietto in danno di Antonio Imparato anni 14;  per le lesioni gravi per “abberatio ictus”,  in persona di  Carmela Mastrostefano ad anni 21;  per la resistenza a pubblico ufficiale, per la recidiva di pistola,  per il porto di coltello anni 3. Stimasi inoltre  infliggere al Ragosta anni 2 di reclusione. La pena complessiva da applicarsi a Nicola Leone va determinata in anni 30 di reclusione”.  La sentenza venne appellata da entrambi gli imputati. Per Ragosta (che aveva ostacolato l’arresto del Leone innanzi ai carabinieri) si chiedeva l’assoluzione “perché il fatto non sussisteva
“ ed in subordine “perché il fatto non costituiva reato“. Per Leone la difesa insistette nella perizia psichiatrica, nella continuazione dei delitti, per la esclusione della premeditazione, per la esclusione della volontà omicida, per la eccessività della pena inflitta ed infine la mancata concessione delle attenuanti generiche “dato lo stato di agitazione e di sconforto  in cui si trovava il Leone al momento della commissione dei delitti”.  Nel 1963, dopo 8 anni dai delitti, la corte di assise di Appello di Napoli (Presidente, Mario Marmo; giudice a latere, Domenico Leone; pubblico ministero, procuratore generale Roberto Angelone) confermò in piena il verdetto di primo grado. Non ci fu ricorso per Cassazione. Nei processi furono impegnati gli avvocati: Guido Cortese, Federico Simoncelli (senior) e Antonio Simoncelli.

 

 

 

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