Chi ha paura della bellezza?
Nel tempo della velocità e del rumore, la letteratura perde l’incanto. Ma è davvero la bellezza ad averci lasciati, o siamo noi ad averla tradita?
di Lina Angela Barbieri
C’era un tempo in cui la bellezza non doveva giustificarsi.
Non correva il rischio di essere archiviata come “inutile”, né veniva misurata in like o conversioni. Viveva nei versi di un poeta, nella curva di una frase cesellata con grazia, nella lentezza consapevole del racconto che sapeva attendere. Oggi, invece, la bellezza inquieta. Disturba. Chiede tempo, attenzione, silenzio. Qualcosa che il mondo contemporaneo sembra rifiutare con una scrollata di pollice.
Letteratura d’incanto o d’intrattenimento? La domanda è urgente. Perché nella società della distrazione permanente, anche la letteratura – un tempo roccaforte del pensiero e dell’estetica – sembra essersi piegata a un principio nuovo: quello dell’intrattenimento rapido, fruibile, anestetizzante. Non più parole che accendono, ma frasi che scorrono. Non più immagini che abitano la mente, ma trame che si dimenticano appena chiuso il libro.
Ma dov’è finita la letteratura che illuminava e feriva,
quella che lasciava addosso un profumo di eternità?
Forse il punto è proprio qui: la bellezza non è mai immediata. Richiede uno sguardo attento, una disponibilità all’attesa, una capacità di entrare nel ritmo dell’inutile. Sì, perché la bellezza – quella vera – è inutile nel senso più alto del termine: non serve a produrre, non semplifica, non risolve. Ma accade. Come un’alba che nessuno ha ordinato, come una parola antica che riappare sul fondo della memoria.
Non è un caso se le grandi opere del passato – da Leopardi a Virginia Woolf, da Rilke a Pavese – sembrano oggi ancora più luminose. Sono scrigni di bellezza in un’epoca che li teme, li evita, li considera “difficili”. Eppure sono proprio quei testi a salvarci dall’appiattimento emotivo, dalla sterilità dell’ovvio.
Perché la bellezza ci spaventa? Perché ci costringe a sentire. A rallentare. A guardarci dentro. In un tempo che esige efficienza e velocità, ogni pausa è sospetta. Ogni emozione profonda rischia di diventare un inciampo. E allora la bellezza diventa un problema. Come se sostare davanti a una frase ben scritta fosse un lusso o –
peggio – un capriccio da élite.
Ma è un inganno. Perché nulla è più democratico della bellezza. Basta un libro, un attimo di silenzio, un cuore disposto a farsi toccare.
Oggi più che mai, la responsabilità è condivisa. Agli scrittori il compito – arduo ma necessario – di non cedere all’algoritmo, di resistere alla tentazione di scrivere solo per essere letti. Ai lettori, invece, l’onere e l’onore di scegliere ciò che non grida, ma resta. Di cercare tra le pieghe del mercato quei testi che non intrattengono, ma rivelano.
La bellezza non è scomparsa. Si è solo ritirata. Come un animale selvatico, ora abita le zone marginali, le scritture meno prevedibili, i libri silenziosi. Non la troveremo nei titoli gridati, né nelle classifiche. Ma è lì, viva, pronta a rinascere in chi ha ancora il coraggio di lasciarsene ferire.
Perché la bellezza – quella autentica – non consola. Esige. Ma una volta toccati dalla sua grazia non torniamo mai più come prima