di Lina Angela Barbieri
3 agosto 2025 – Una volta c’era la carbonara. C’erano la parmigiana fumante, i tortellini la domenica, i profumi d’aglio e basilico che salivano dalle cucine e si aggrappavano ai muri di casa. C’era un’Italia seduta a tavola, con il piatto pieno e le storie familiari che passavano, come il pane, da una mano all’altra. Poi è arrivato il sushi. Discreto, composto, crudo. E ha conquistato silenziosamente una generazione intera.
Il sushi non è solo un cibo: è uno specchio, un simbolo, un atto. Racconta come cambiano i giovani, come si trasformano le identità e le appartenenze, come si esprime oggi il desiderio — profondo e sotterraneo — di cercare qualcosa di diverso.
L’altro nel piatto
Scegliere di mangiare sushi, per un giovane italiano, non è mai una scelta neutra. È assaporare qualcosa che viene da lontano, e farlo proprio. È un piccolo gesto di trasgressione elegante, che rompe con la familiarità della tavola domestica per affacciarsi su un altrove controllato, estetico, ordinato. Il sushi non sporca, non straborda, non trabocca di sughi: è lineare, preciso, zen. In un certo senso, è l’opposto della cucina mediterranea. E proprio per questo attrae.
Il paradosso della globalizzazione (a tavola)
Viviamo in un tempo in cui si parla di ritorno alle radici, di protezione dell’identità culturale, di confini e appartenenze. Eppure, quando ci sediamo a tavola, i confini si dissolvono. Mentre cresce il rifiuto ideologico della globalizzazione, si diffonde sempre di più il desiderio di assaporare l’altro, di farlo nostro. È un paradosso solo apparente: il cibo permette ciò che la politica spesso nega. Mette in comunicazione, accoglie, fonde.
In questo, l’Italia resta emblematica. Se da un lato i giovani abbracciano sushi, poke, ramen e tacos, dall’altro le nostre ricette tradizionali continuano a essere venerate nel mondo. La cucina italiana è una lingua franca. Nessun paese, forse, ha saputo esportare così tanto sapore, memoria e bellezza come l’Italia. La pasta e la pizza diventano “patrimonio condiviso” in ogni angolo del pianeta, mentre qui i ristoranti giapponesi si moltiplicano come funghi. È uno scambio continuo, fluido, che attraversa il gusto e scavalca ogni frontiera.
Il cibo come vera cultura
In questo scenario, il cibo si rivela per ciò che realmente è: la più autentica forma di cultura. Più della lingua, più della moda, più della musica. Perché il cibo entra nel corpo, diventa carne, si mescola alla nostra biologia e ai nostri ricordi. Non è un’esperienza astratta: è intima, quotidiana, potente. Ed è anche una delle poche forme di cultura che ammette la contaminazione senza paura. Anzi, ne trae forza.
Individualismo e nuova ritualità
Accanto a tutto questo, c’è anche un mutamento sociale. I giovani mangiano meno in famiglia, più per conto proprio. Ordinano con una app, cenano in compagnia ma ognuno col suo piatto. La condivisione, un tempo sacra, è diventata più fluida, meno legata al rito. Il sushi si adatta perfettamente a questa nuova ritualità: porzioni precise, estetica curata, possibilità di scelta e combinazione infinita.
Tra piacere e simbolo
Il sushi è, certo, un piacere. Ma è anche molto di più. È un linguaggio con cui i giovani comunicano chi sono, o chi vogliono essere. È un modo per distinguersi, per mostrarsi internazionali, raffinati, “aperti”. È un piccolo atto simbolico che racchiude un universo di significati: estetici, culturali, affettivi.
Mangiare sushi, oggi, non significa solo preferire un piatto a un altro. Significa entrare in una nuova geografia del gusto, dove i sapori si mescolano, le identità si ridefiniscono, le storie si intrecciano. In fondo, ciò che mettiamo nel piatto parla di noi più di quanto immaginiamo. E forse proprio per questo, anche in tempi incerti e contraddittori, continuiamo a cercare — nel cibo dell’altro — un riflesso di noi stessi.