Ogni anno, migliaia di giovani, soprattutto del Sud, si vedono costretti a lasciare la propria terra per cercare al Nord un’opportunità lavorativa nella scuola pubblica. Non per ambizione o spirito d’avventura, ma per necessità. Inseguono incarichi di supplenza spesso brevi, scomodi, incerti. Sperano in una continuità che raramente arriva. Si allontanano da casa, da una rete affettiva che è anche economica, psicologica, identitaria.
Quello che dovrebbe essere l’inizio di una carriera diventa, troppo spesso, l’inizio di un logoramento.
Un pendolo tra passione e precarietà
L’insegnamento è, per molti giovani, ancora oggi una scelta vocazionale. È frutto di anni di studio, di dedizione, di percorsi universitari e formativi complessi, spesso costosi: lauree magistrali, TFA, corsi di specializzazione, crediti formativi, master. Si tratta di un investimento profondo, anche umano, nella costruzione di una professionalità che, in teoria, dovrebbe restituire senso, stabilità, dignità.
Ma la realtà è diversa: nonostante l’alta qualificazione, nonostante la cronica carenza di docenti in alcune aree del Paese (soprattutto nel Nord), i giovani insegnanti si trovano a essere trattati come risorse temporanee, rimpiazzi di breve durata, ingranaggi in un meccanismo scolastico che pare dimenticare la dimensione umana del lavoro educativo.
Così si parte. Si lascia casa, ci si carica di speranze e paure, si approda in città dove l’accoglienza non è garantita, né dalle istituzioni né dal mercato immobiliare. Nessuno si chiede come viva un supplente che arriva da 1.000 chilometri di distanza per insegnare in una scuola di periferia per tre mesi. Nessuno si chiede dove dormirà, con che soldi si manterrà, come affronterà la solitudine e lo spaesamento. Eppure, è da lì che dovrebbe nascere la scuola del futuro.
L’Italia che costringe i suoi insegnanti a essere nomadi
Siamo un Paese che, anziché attrarre e trattenere i propri insegnanti, li spinge a vivere da migranti. Non ci sono strutture di sostegno per i docenti fuori sede, né agevolazioni per gli alloggi, né tutele sufficienti contro i costi di vita esorbitanti. Anzi, spesso gli viene chiesto di anticipare le spese – viaggi, affitti, vitto – senza sapere quando arriverà il primo stipendio, né quanto durerà l’incarico.
In molte città del Nord, gli affitti vengono negati a chi ha contratti a tempo determinato. Gli insegnanti precari vengono trattati come inaffidabili. Il paradosso è evidente: si chiede a questi giovani di garantire continuità educativa, di occuparsi dei bisogni educativi speciali, di gestire classi complesse… ma non si concede loro neppure un letto dove dormire con serenità.
A volte, la soluzione diventa il pendolarismo estremo: sveglie all’alba, rientri notturni, centinaia di chilometri al giorno. Un sacrificio enorme per uno stipendio che, tolte le spese, garantisce poco più della sopravvivenza.
Una questione culturale, prima ancora che politica
Dietro tutto questo non c’è solo una cattiva gestione amministrativa. C’è un modello culturale miope, che continua a considerare l’insegnamento come una vocazione da vivere in silenzio, quasi con spirito di sacrificio. Come se chi sceglie di educare debba essere pronto a rinunciare a tutto il resto: alla stabilità, al tempo libero, alla serenità.
Eppure, insegnare è un lavoro. Un lavoro essenziale, che plasma generazioni, forma cittadini, costruisce coscienze. Un lavoro che, come tale, merita retribuzione adeguata, condizioni dignitose, rispetto.
L’emergenza di oggi non è solo occupazionale. È simbolica. Che cosa dice di noi una società che tratta così i propri insegnanti più giovani e motivati? Che futuro può costruire un Paese che considera “fortuna” ottenere tre mesi di supplenza malpagata a centinaia di chilometri da casa?
Famiglie stremate, figli disillusi
A questo scenario si aggiunge un dolore più silenzioso, ma altrettanto profondo: quello delle famiglie. Genitori che hanno investito tutto – denaro, speranze, incoraggiamenti – nei percorsi formativi dei figli, e che ora si trovano a vederli vivere in uno stato di continua precarietà.
Per molti, l’ansia non riguarda solo il lavoro: riguarda la salute mentale, l’equilibrio emotivo, la tenuta psicologica dei figli. Il senso d’impotenza si fa pesante, perché non ci sono soluzioni immediate. Non si può sostituire un sistema che non funziona con l’amore familiare. Non si può colmare un vuoto istituzionale con la buona volontà dei singoli.
E così, in molti casi, sono i genitori a sostenere economicamente i figli anche dopo la laurea, anche dopo l’abilitazione, anche dopo l’incarico. Famiglie che speravano di vedere i propri figli “realizzati” e che invece li vedono vivere come stagionali dell’istruzione.
Restituire senso all’insegnamento
Tutto questo dovrebbe interrogarci, come comunità, come cittadini, come persone. L’educazione non si regge solo sui programmi, ma sulle persone che li incarnano. Se quelle persone sono costrette a vivere in condizioni di fragilità costante, ne risentirà inevitabilmente anche la qualità del sistema scolastico.
Serve, oggi più che mai, una riflessione profonda sul significato che vogliamo attribuire alla figura dell’insegnante. Non basta dire che è una professione “importante”: bisogna dimostrarlo nei fatti, con politiche abitative, contrattuali, formative all’altezza.
Perché insegnare non può diventare un privilegio per pochi, né una missione da scontare. Deve essere un diritto, una possibilità concreta per chi ha investito energie e passioni per costruire il futuro. E il nostro.